LA COSTITUZIONE ITALIANA
E I MOTIVI DEL NO AL REFERENDUM
Giovanna Canzano
dialoga con
Touhami Garnaoui
1 dicembre 2016
A. PRECEDENTI
Durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto, tra le altre cose, che si aspetta che la riforma della Costituzione promossa dal suo governo venga sottoposta a referendum confermativo a metà del prossimo ottobre (data spostata al 4 dicembre di quest’anno). Renzi ha aggiunto che, qualora la riforma dovesse essere bocciata dagli elettori, prenderebbe atto del «fallimento del mio impegno politico».
Durante il secolo scorso, cioè nel periodo (1948 – 1999) si è proceduto all'approvazione di ben venticinque leggi costituzionali e di revisione costituzionale che hanno, tra l'altro, riguardato: le modalità di elezione di Camera e Senato e la durata della legislatura; il numero delle Regioni; la composizione della Corte; la responsabilità penale dei ministri; il potere di scioglimento del Capo dello Stato; le modalità di concessione dell'amnistia e dell'indulto; l'istituto dell'immunità parlamentare; l'autonomia statutaria delle Regioni.
Diverse sono le tendenze del "revisionismo costituzionale" che si sono venute consolidando in questo terzo millennio in Italia, dove a partire dal 2000 - fatte salve due puntuali revisioni costituzionali (la prima, del 23 ottobre 2002, che ha posto fine al "divieto di ingresso" in Italia per i membri e i discendenti di Casa Savoia - e la seconda, del 30 maggio 2003, che ha introdotto in Costituzione il concetto di "pari opportunità tra donne e uomini") - si è proceduto alla stesura di veri e propri progetti organici di riforma della Costituzione. Il primo del 18 ottobre 2001, che ha modificato le disposizioni del Titolo V della Costituzione (concernente l'organizzazione costituzionale delle Regioni, Province e Comuni). Il secondo sulle "Modifiche alla parte II della Costituzione" si è svolto, invece, il 25 e 26 giugno 2006. In quell'occasione gran parte dei cittadini si sono trovati di fronte a un vero e proprio dilemma essendo stati chiamati a misurarsi, con un unico voto, su un articolato e particolarmente complesso progetto di modifica della seconda parte della Costituzione (dalla concentrazione dei poteri di indirizzo politico nelle mani del primo ministro alla c.d. devolution). La formulazione del quesito referendario non consentiva, infatti, alcun distinguo e ammetteva per sua natura una sola scelta: prendere tutto o lasciare tutto. Fu respinto col voto popolare (61% di voti contrari; affluenza alle urne: 52,3%)
Tre sono le 'peculiarità' che differenziano significativamente queste iniziative di revisione costituzionale rispetto alle precedenti:
a) l'oggetto della riforma costituzionale non è più costituito da singole e circoscritte disposizioni normative, ma tende esponenzialmente a coinvolgere, in un caso, un intero titolo della Costituzione e, nell'altro, tutta la sua seconda parte (più di quaranta articoli).
b) il progetto di riforma è stato in entrambi i casi approvato in Parlamento non sulla base di una larga intesa tra maggioranza e opposizione (come sarebbe sempre opportuno quando si va a incidere sulla "legge suprema" dell'ordinamento), ma dalle sole forze di governo.
c) in entrambi i casi l'approvazione del progetto di revisione a maggioranza assoluta e dopo accesi contrasti tra gli opposti schieramenti politici ha comportato l'inedita richiesta (ciò infatti non era mai accaduto in precedenza) di un referendum costituzionale.
B. COSA PREVEDE LA RIFORMA
Il testo della riforma costituzionale Renzi comprende 40 articoli più un articolo sull’entrata in vigore, divisi in
- 20 articoli modifiche al Titolo I della Parte II della Costituzione
- 4 articoli modifiche al Titolo II della Parte II della Costituzione
- 4 articoli modifiche al Titolo III della Parte II della Costituzione
- 8 articoli modifiche al Titolo V della Parte II della Costituzione
- 1 articolo modifiche al Titolo VI della Parte II della Costituzione
- 3 articoli Disposizioni finali
Prima di tutto cerchiamo di leggere il testo della riforma pubblicato sulla Gazetta Ufficiale del 15 aprile 2016. Ma non sarà facile capire quello che è scritto. Condividiamo il parere di Guido Calvi quando ci consiglia: Se leggendo l’art.70 avete capito qualcosa allora votate sì.
Infatti occorre leggere 41 articoli e capirli, poi riuscire ad interpretarli, valutarli, votarli in blocco, LIBERAMENTE.
Non sembra dunque più un referendum sulla riforma della costituzione ma un plebiscito su Renzi e sul PD, con nuovi poteri più ampi degli attuali.
Alcuni elettori, da me intervistati, propensi a votare sì hanno così riassunto il testo della riforma, d’altronde come suggerito loro dalla stampa e dalla televisione di regime: Voto sì perché Renzi è un uomo del dialogo; perché “personalmente” non desidero il mantenimento del l’attuale bicameralismo perfetto; sono per la riduzione del costo della politica; non so a cosa serva il Cnel; l’eliminazione delle province rende più snella l’amministrazione meno costosa; la chiarezza delle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni. Non deve essere una cattiva cosa. Nessuno ha saputo esprimersi su una modifica del ruolo della Consulta.
E’ stranamente quello che scrive Paolo Angiolini, un “amico” su fb: “C'è qualcosa che si vuol nascondere? Perché ci vogliono accontentare con una semplice e accattivante "letterina accompagnatoria"?
"Vuoi tu ridurre il numero (non certo "gli emolumenti"... troppo grazioso!) di quei fanfaroni acchiappapoltrone detti parlamentari? Ma certo che Sì! "Quindi vuoi ridurre i costi della politica"? Ma come minimo! "E abolire le Province"? Per cominciare, certo! "E anche il CNEL"? Il cosa? Comunque sì, sicuramente si! "Ma BRAVO, tu si che sei un cittadino che guarda al futuro; non come quei vecchi gufoni che dicono solo di no.
Beh, se la riforma è questa qua... non occorre neanche che apra il pacchetto!
...però i "gufoni" che dicono di NO... sono proprio tanti ...e dicono che se togli il bel fiocchetto rosso (al "pacchetto" sicuramente ben confezionato), se guardi bene ...dentro c'è una brutta sorpresa!
Insomma, dicono che più che un pacchetto regalo... 'sta riforma è proprio UN PACCO!”. Una palla al piede, una fregatura!
Per Piero Bevilacqua, “l’eventuale vittoria di Renzi al referendum segnerebbe un grave arretramento per la sinistra e soprattutto per l’intero paese.” Egli vede che “Renzi ha preso la strada che conosciamo: abolizione della tassa sulla prima casa, conflitto aperto con il sindacato, ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro (Jobs Act), dialogo preferenziale con la Confindustria, ridisegno verticistico della scuola (legge sulla Buona scuola). Poi si chiede: “perché tale veemente volontà di imposizione, espressa dentro il suo partito, non dovrebbe estendersi al resto della società italiana? E infatti abbiamo visto e vediamo come Renzi ha fatto della riforma della Costituzione, materia per eccellenza del Parlamento, una battaglia del governo e sua personale. Egli ha alterato gravemente lo spirito e la lettera della Carta, tanto nell’iter parlamentare che nella campagna referendaria: dalla sostituzione dei parlamentari dissidenti in Commissione costituzionale al recente cambio di guardia dei direttori della Rai, che oggi occupa senza tregua con la sua propaganda referendaria.
Ebbene, questo segretario di partito e presidente del Consiglio, che mostra una spregiudicatezza senza precedenti nel manomettere il potere pubblico, che non indietreggia di fronte alla spaccatura del paese per vincere la sua personale battaglia, che vuol cacciare chi nel suo partito non gli ubbidisce, quale futuro ci predisporrà nel caso dovesse prevalere nel referendum? Se già ora si mostra capace di controllare tante sfere del potere, di violare le regole, che cosa accadrebbe con l’Italicum, una volta acquisita una capacità di comando enormemente rafforzata rispetto all’attuale? Non è evidente che egli darebbe una torsione autoritaria alla vita italiana?” Rispondendo a Scalfari, e a Cacciari, Bevilacqua trova che “non c’è bisogno di immaginare un Videla o un Pinochet, siamo pur sempre in Europa, i cittadini devono consumare, non possiamo rinchiuderli negli stadi o farli sparire.
E allora? È davvero difficile immaginare quanti milioni di italiani che hanno potere, nei partiti, nei media, nelle Università, nelle banche, diventerebbero renziani? Ci vuole troppa fantasia per prevedere in quale totalitario conformismo precipiterebbe il paese per almeno un decennio, con un incalcolabile impoverimento culturale di tutti? Occorre avere una sfera di cristallo per intuire che anche sotto il profilo economico l’Italia non fermerebbe il suo declino, perché Renzi – tardivo epigono neoliberista – persegue la stessa politica che ha generato la crisi in Italia e nel mondo?”
Vediamo comunque di capire cosa cambia, quando e come per Costituzione e Senato.
1.Riforma Costituzionale, il nuovo Senato
La riforma non prevede solo la fine del cosiddetto “bicameralismo perfetto”, espressione con cui si definisce un sistema parlamentare le cui camere svolgono più o meno le stesse funzioni, ma dice con che cosa sostituirlo e con quali poteri
Con la riforma il Senato perderebbe molti dei suoi poteri: il grosso del potere legislativo finirebbe in mano alla sola Camera dei Deputati. Il Senato cambierebbe anche composizione: sarebbe formato da 74 consiglieri regionali nominati dai rispettivi consigli regionali, più 21 sindaci e 5 membri nominati dal presidente della Repubblica. Le modalità esatte di elezione dei nuovi senatori/consiglieri saranno definite in seguito attraverso delle leggi ordinarie: nel “ddl Boschi” è scritto solo che i senatori saranno eletti «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi». Il Senato quindi avrebbe 100 senatori, 215 in meno rispetto a oggi.. 95 di essi verranno eletti dalle Regioni “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Come si tradurrà nei fatti questa “conformità” lo stabilirà una legge quadro che sarà recepita dai singoli enti territoriali entro 3 mesi dall’ok definitivo alla riforma. Dei 95 Senatori eletti 74 saranno appunto consiglieri regionali, mentre gli altri 21 saranno sindaci. I 5 rimanenti verranno invece nominati dal Presidente della Repubblica e rimarranno in carica per 7 anni senza possibilità di reiterazione del mandato. Ai 100 si aggiungeranno poi i Senatori a vita, che saranno gli ex Presidenti della Repubblica.
Vengono sospese le indennità attualmente in vigore per chi occupa i seggi di Palazzo Madama, ma è prevista l’immunità parlamentare. Una decisione ampiamente contestata poiché proibisce intercettazioni, perquisizioni o arresti senza l’approvazione dell’Assemblea. Utilizzando la cronaca odierna per fare un esempio: se la legge oggi fosse in vigore, il vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani non sarebbe agli arresti con le accuse di corruzione, concussione, turbativa d’asta, ma godrebbe dell’immunità.
Parlando dei poteri del nuovo Senato, i nuovi inquilini di Palazzo Madama non potranno più votare la fiducia al Governo, prerogativa che rimarrà appannaggio solo della Camera dei Deputati.
I Senatori potranno esprimersi solo sulle leggi costituzionali, sulle ratifiche dei trattati UE e sulle leggi elettorali e avranno una funzione di raccordo tra enti locali e Stato. Decadrà invece la competenza sulle leggi ordinarie (potranno richiedere modifiche stabilite a maggioranza assoluta, ma il loro parere non sarà vincolante).
Palazzo Madama potrà dire la sua anche sulle leggi di bilancio, ma avrà a disposizione solo 15 giorni per esprimere il proprio parere, non vincolante, a maggioranza assoluta. In ultimo, il Governo potrà chiedere alla Camera che una misura ritenuta fondamentale venga esaminata in via prioritaria e votata entro 70 giorni.
2. Riforma della Costituzione: Consulta
I senatori avranno inoltre il compito di eleggere due dei cinque giudici (gli altri tre alla Camera) della Consulta, che non verranno più scelti dal Parlamento riunito in seduta comune, ma verranno divisi tra le due Aule. Nel corso dei primi due scrutini, per la loro elezione occorrerà raggiungere la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, mentre in quella successiva basterà la maggioranza dei tre quinti.
3. Riforma della Costituzione: l’elezione del Capo dello Stato
Il DDL Boschi attua delle modifiche rilevanti anche all’elezione del Presidente della Repubblica. Il posto dei delegati regionali verrà preso dai nuovi Senatori, ma la modifica più importante riguarda senza dubbio il quorum da raggiungere. Nelle prime tre votazioni tutto rimane invariato e il Capo dello Stato verrà eletto solo in presenza della maggioranza dei due terzi dell’Assemblea. Dalla quarta votazione in poi, il quorum scenderà dalla maggioranza assoluta alla maggioranza dei tre quinti dell’intera Assemblea, mentre dalla settima votazione in poi si dovrà arrivare ai tre quinti dei votanti.
In caso di impedimento permanente, morte o dimissioni del Capo dello Stato sarà il presidente della Camera, e non più quello del Senato, a occupare il ruolo di presidente della Repubblica “ad interim”.
4. Riforma della Costituzione: referendum
Il numero di firme necessario per presentare un referendum popolare salirà da 500mila a 800mila (e sarà necessaria anche una dichiarazione di ammissibilità della Corte Costituzionale), mentre per un progetto di legge ne serviranno 150mila e non più 50mila. Il DDL Boschi prevede l’introduzione nella Costituzione di altri due tipi di referendum: popolari propositivi e di indirizzo. Spetterà alla Camera il compito di varare una legge che ne delinei le modalità di attuazione.
5. Riforma della Costituzione: il CNEL
Un’altra grande vittoria di Matteo Renzi. L’approvazione definitiva della legge comporterà l’abrogazione dell’articolo 99 della Costituzione. In parole povere, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro non esisterà più. Ma per eliminare il CNEL occorrerrà seguire un iter ben preciso: nei 30 giorni successivi all’entrata in vigore della legge verrà nominato un commissario straordinario cui spetterà il compito di liquidare e ricollocare il personale presso la Corte dei Conti.
Ma dal testo costituzionale non sparirà solo il CNEL. Con esso verranno eliminate anche le Province e le materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni.
6. Riforma Costituzionale: il ruolo della Consulta
Le leggi che regolano l’elezione di Deputati e Senatori potranno essere sottoposte al vaglio della Consulta anche prima della loro promulgazione e la corte darà un giudizio preventivo di legittimità costituzionale. Entro 10 giorni dall’approvazione del testo, un quarto dei componenti della Camera o un terzo dei componenti del Senato potranno presentare un ricorso motivato. La Consulta a questo punto avrà 30 giorni di tempo per pronunciarsi. Nel caso in cui decidesse per una dichiarazione di illegittimità, la legge non potrà essere promulgata.
7. Riforma Costituzionale: il Titolo V.
Oltre alla riforma del Senato, di cui si è molto discusso, il “ddl Boschi” modifica anche altre parti della Costituzione, in particolare per quanto riguarda il titolo V, cioè la parte del testo costituzionale che tratta il rapporto tra Stato e Regioni.
(segue)
C. GLI IGANNI DEL SI
1. La domanda a cui si deve rispondere è ingannevole: col Sì non ci sarebbe la fine del bicameralismo, visto che il Senato futuro sarebbe una strana accozzaglia di membri e di poteri destinata a creare solo problemi (oltre a risolvere con l’immunità le pendenze giudiziarie di amministratori locali disonesti). E non parliamo della promessa di tagliare le spese della politica, che ha un tono populistico e riguarda un risparmio ridicolo a fronte della necessità democratica di avere rappresentanti eletti dal popolo adeguati nel numero e nella gamma politica alle tante differenti realtà di un paese complicato e disuguale per ragioni storiche e sociali come l’Italia.
Il governo ha inserito nella legge di stabilità un finanziamento di 97 milioni di euro a garanzia della Ryder Cup LLP di golf, nel cui Comitato organizzativo ci sono: il figlio di Gianni Letta, la moglie di Frattini, il renziano Guido Barilla e l’ex presidente della Rai Gubitosi.
Secondo Renzi è logico modificare la Costituzione per risparmiare 57 milioni di euro e stanziarne 97 per per un torneo di golf.
2. La riforma costituzionale aumenta gli stipendi dei politici. Stipendi più alti per i consiglieri di cinque Regioni. Rischia di essere questo l’esito più controverso della riforma costituzionale che il 4 dicembre affronterà il verdetto popolare. Il nodo sta nell’articolo 35 del ddl Boschi, quello che si occupa dei «Limiti agli emolumenti dei componenti degli organi regionali» e che modifica l’articolo 122 della Costituzione. Nel testo è stabilito che gli «emolumenti» dei consiglieri regionali «sono disciplinati con legge della Regione (...) nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione». In apparenza sembrerebbe un duro colpo alla «Casta»: le buste paga dei consiglieri regionali sono normalmente assai più pesanti di quelle dei primi cittadini. Ma la vaghezza della norma rischia di prestarsi a un’interpretazione diversa. Cosa si intende, innanzitutto, per «emolumenti»? L’intera busta paga, comprensiva di indennità e rimborsi vari, o solo la parte «fissa» della retribuzione?
Se a prevalere fosse questa seconda versione, i consiglieri regionali di Lazio, Lombardia, Campania, Piemonte ed Emilia Romagna potrebbero stappare bottiglie di champagne. Il loro stipendio verrebbe addirittura ritoccato verso l’alto.
3. C’è poi il nodo tra nuova Costituzione e legge elettorale “Italicum”: un nodo voluto e deliberato, che non è stato sciolto quando si doveva farlo e forse non lo sarà mai. Le promesse attuali sono un altro inganno.
4. Chi ha impostato la riforma della Costituzione – cioè Renzi che ne è il responsabile e il beneficiario in prima persona – ha concepito il disegno di garantirsi mani libere per l’intera prossima legislatura.
Ma Renzi dice che quelli di prima stanno cercando di tornare per prendersi il paese. Ciriaco De Mita, Lamberto Dini, Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Mario Monti. Ora Massimo D’Alema ha annunciato che pensa di attaccare i guanti della politica alla fine della battaglia per il referendum.
D. PERCHÉ VOTARE NO
1. Contro lo strapotere di Matteo Renzi
L’approvazione della riforma proposta dal Governo, nonostante le numerose polemiche degli ultimi mesi, sancirà il trionfo assoluto di Matteo Renzi su minoranze e opposizioni. La riforma, infatti, prevede che il governo abbia bisogno solo della fiducia della Camera dei Deputati. Si potrà temere che in questo modo anche i futuri governi avranno troppo potere e l’equilibrio tra governo e Parlamento ne uscirebbe sbilanciato.
Secondo Cacciari, “Renzi è l’ultimo rappresentante di una lunga vicenda. E’ la sinistra, prima l’Ulivo, poi il PD, che sta dimostrando di non avere più motivi per essere, che non riesce a rappresentare i ceti più disagiati, i giovani, i lavoratori dipendenti. Il precariato. E’ questione di strategia e non di rottamazione dei vecchi, la mistificazione delle situazioni impedisce di capire le grandi trasformazioni.”
Fra i molti che voteranno NO, i giovani, gli studenti, le famiglie sotto sfratto e gli abitanti dei quartieri popolari che hanno voluto partecipare al dibattito pubblico per portare altri tipi di ragioni. Le motivazioni di chi dice NO sono quelle di una grande fascia della popolazione che subisce le politiche renziane del lavoro sottopagato con i voucher (buoni lavoro per lavori saltuari), con i contratti interinali o con il lavoro gratuito camuffato da stage; sono quelle di chi non può pagarsi affitti altissimi ma viene escluso con le nuove leggi regionali dai bandi per la casa popolare; sono quelle di chi viene truffato dalle banche; sono quelle di chi va a scuola e all’università e che nonostante i mille sacrifici non riesce più a vedere una prospettiva per il proprio futuro.
Ha ragione Cacciare quando dice che “a livello territoriale il M5*, cerca il recupero delle forze, delle energie che si sono formate da sole, non yesman, non cooptate, non nominate, come metà dei deputati; saranno poco preparate, saranno ancora incompetenti, però si stanno facendo da loro, con le loro forze, contattando la gente, casa per casa, mostrando le loro facce sul territorio, tutte belle cose che il PD si è dimenticato di fare.
Renzi ora rischia molto se perde il referendum, perché si apre un bel casino per lui, avendo messo tutto su questo referendum. Renzi si sta auto-preparando un trappolone pazzesco. Perché con questa riforma e la nuova legge elettorale, al ballottaggio ci va con M5*. Con questi dati, al ballottaggio Renzi perde. L’uomo non ne sembra consapevole, essendo preso da una tale forma di megalomania.”
2. Il Governo Renzi è il quarto governo più longevo della repubblica
Scrive Tony Barber sul Financial Times:
“Renzi sostiene che il sistema di governo stabilito dalla Costituzione italiana del 1948 è un disastro che genera continua instabilità. Allo stato attuale, le due camere del Parlamento hanno poteri identici. Nessun disegno di legge diventa legge fino a quando le due camere non sono d’accordo su un testo comune. Secondo il premier, questo si traduce in ritardi inutili che mettono i bastoni tra le ruote a governi ben intenzionati, come il suo, che vogliono far passare riforme di modernizzazione. Eppure, il record dei governi del dopoguerra, tra cui quello stesso di Renzi, confuta la sua argomentazione. Il Parlamento italiano ogni anno approva più leggi del governo di Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. Nonostante la mancanza di una maggioranza al Senato, il partito democratico di Renzi ha fatto passare tagli fiscali e una riforma del mercato del lavoro che sono i pilastri del suo programma.
Né i poteri del Senato sono la ragione per cui ci sono stati più di 60 governi negli ultimi 70 anni. La spiegazione principale è la frammentazione dei partiti politici italiani. Che riflette la frammentazione della società italiana. Ogni partito, e ogni fazione di ogni partito, si distingue per una serie particolare di interessi economici, geografici, ideologici, religiosi o sociali – o anche per l’interesse personale del suo leader, come quando Berlusconi di Forza Italia era al governo.”
Tutti forse ricordano che dopo il decreto taglia-leggi si è dovuto fare il decreto salva-leggi. Perché ben altro è semplificare. Significa scrivere norme chiare e comprensibili a tutti i cittadini. Come evidentemente sa bene anche Calderoli. Lui stesso ha voluto che in una legge approvata il 18 giugno 2009 ci fosse un articolo intitolato: «Chiarezza dei testi normativi». Una norma con la quale si stabilisce che quando si cambia o si sostituisce una legge, esercizio in Italia piuttosto frequente, sia obbligatorio indicare «espressamente» che cosa viene cambiato o sostituito. E che quando in una legge c’è un «rinvio ad altre norme contenute in disposizioni legislative», si debba anche indicare «in forma integrale, o in forma sintetica e di chiara comprensione» il testo oppure «la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento». Ma si afferma pure il principio che le disposizioni sulla chiarezza dei provvedimenti «non possono essere derogate, modificate o abrogate se non in modo esplicito». Ebbene, da quando queste norme sono state approvate, il governo del Semplificatore ha scritto leggi se possibile ancora più indecifrabili e complicate. Una perla scintillante è il cosiddetto decreto milleproroghe. L’ultima è l’art. 70 modificato nel testo di Renzi.
Come scrive Tony Barber, “ciò di cui l’Italia ha bisogno non sono leggi approvate più rapidamente, ma meno leggi e migliori. Devono essere scritte con cura, e applicate, piuttosto che bloccate o aggirate dalla pubblica amministrazione italiana, da interessi particolari e dal settore pubblico. Le riforme sono collegate a una legge elettorale che assegna un premio in seggi al partito vincente alla Camera dei deputati, assicurando la maggioranza per un periodo di cinque anni. Preparata nel 2014 da Renzi e Berlusconi, anche qui si tratta di una cattiva riforma.”
3. “Governabilità”, nel lessico politico odierno, vuol dire soltanto potere di comando
Scrive Luigi Ferrajoli: “governabilità”, nel lessico politico odierno, vuol dire soltanto potere di comando, senza limiti dal basso, grazie alla smobilitazione sociale dei partiti, e senza limiti e vincoli dall’alto, grazie al venir meno dei freni e contrappesi e la scomparsa della Costituzione dall’orizzonte della politica. E’ questa la governabilità inseguita da 30 anni – prima da Craxi, poi da Berlusconi e oggi da Renzi – attraverso la semplificazione e la verticalizzazione dell’assetto costituzionale intorno al governo e al suo capo: una governabilità necessaria alla rapida e fedele esecuzione dei dettami dei mercati. E’ questo, e non altro, il senso delle riforme istituzionali di Matteo Renzi. “Ce le chiede l’Europa”, ripetono i nuovi costituenti a proposito delle loro riforme. Ce le chiede l’ambasciatore degli Stati Uniti.
“Nelle capitali europee”, aggiunge Barber, “si ha la sensazione che Renzi merita di essere sostenuto. Un’Italia senza timone, vulnerabile ad una crisi bancaria e al Movimento Cinque stelle anti-establishment, significherebbe guai.”
4. Una sconfitta di Renzi non è necessariamente destabilizzatrice.
Tuttavia, una sconfitta di Renzi al referendum non deve necessariamente destabilizzare l’Italia. Una vittoria, d’altra parte, potrebbe rappresentare la follia di anteporre l’obiettivo tattico della sopravvivenza di Renzi alla necessità strategica di una sana democrazia in Italia.”
Aggiunge Guido Calvi che bisogna “Votare NO per bloccare una revisione negativa e disastrosa, per pensare domani ad una vera riforma più logica e sensata.”
E. CONCLUSIONI: LA RIFORMA RENZI È UN’AGGRESSIONE ALLE GARANZIE COSTITUZIONALI
Prendiamo a prestito da Luigi Ferrajoli le nostre conclusioni.
“La tesi ripetuta con più insistenza dai sostenitori del Sì al referendum costituzionale è che la riforma non tocca la prima parte della Costituzione, cioè i diritti fondamentali e le garanzie, ma solo la seconda parte, dedicata all’ordinamento della Repubblica. Formalmente, questo è vero. Nella sostanza, purtroppo, è vero il contrario. Da questa riforma risultano indebolite tutte le garanzie costituzionali. Al punto che è legittimo il sospetto che proprio questo sia il suo principale obiettivo.
Grazie all’azione congiunta della riforma del Parlamento e della legge elettorale maggioritaria verrà infatti sostanzialmente soppresso quello che è il tratto distintivo delle costituzioni antifasciste del secondo dopoguerra: il loro ruolo di limitazione del potere politico e la stessa garanzia della rigidità costituzionale, cioè l’impossibilità di modificare la Costituzione se non con larghissime maggioranze. Domani, se questa riforma passerà, chi vincerà le elezioni entrerà in possesso, di fatto, dell’intero assetto costituzionale. Ma le elezioni saranno vinte dalla maggiore minoranza: verosimilmente, da un partito o da una coalizione votati dal 25 o dal 30% dei votanti, corrispondenti, tenuto conto delle astensioni, al 15 o al 20% degli elettori. Grazie alla legge elettorale maggioritaria, questa infima minoranza otterrà la maggioranza assoluta dei seggi, con la quale potrà fare ciò che vuole, incluse le manomissioni della Carta costituzionale. Questo, del resto, è esattamente ciò che ha fatto la maggiore minoranza presente in questo Parlamento, approvando la sua riforma con la maggioranza fittizia conferitagli dal Porcellum dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale e sostanzialmente riprodotto dal cosiddetto Italicum.
Non solo. L’artificiosa maggioranza assoluta assegnata automaticamente e rigidamente alla maggiore minoranza consentirà al vincitore delle elezioni di eleggere da solo, a sua immagine e somiglianza, tutte le istituzioni di garanzia: il Presidente della Repubblica, i membri di nomina parlamentare della Corte costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura e delle altre autorità cosiddette “indipendenti”. L’intero sistema politico ne risulterà squilibrato per il venir meno di tutti gli checks and balances, cioè dell’intero sistema dei freni e contrappesi. Le istituzioni di garanzia non saranno più tali, cioè in grado di limitare e controllare i poteri di governo, ma saranno ridotte a espressioni della maggioranza e del suo governo e, di fatto, con questo solidali.
Ma “governabilità”, nel lessico politico odierno, vuol dire soltanto potere di comando, senza limiti dal basso, grazie alla smobilitazione sociale dei partiti, e senza limiti e vincoli dall’alto, grazie al venir meno dei freni e contrappesi e la scomparsa della Costituzione dall’orizzonte della politica. E’ questa la governabilità inseguita da 30 anni – prima da Craxi, poi da Berlusconi e oggi da Renzi – attraverso la semplificazione e la verticalizzazione dell’assetto costituzionale intorno al governo e al suo capo: una governabilità necessaria alla rapida e fedele esecuzione dei dettami dei mercati. E’ questo, e non altro, il senso delle riforme istituzionali di Matteo Renzi. “Ce le chiede l’Europa”, ripetono i nuovi costituenti a proposito delle loro riforme. Ce le chiede l’ambasciatore degli Stati Uniti.
Domandiamoci: perché? Perché mai i mercati, l’Unione Europea, gli Usa, le agenzie di rating, il gigante finanziario americano JP Morgan si preoccupano della riforma costituzionale italiana, delle nuove competenze del nostro Senato e della nostra legge elettorale? Sono gli stessi giornali e le stesse forze politiche schierate a sostegno del SI che confessano apertamente le finalità della riforma. L’Europa, e tramite l’Europa i mercati, ci chiedono di sostituire alla centralità del Parlamento la centralità del governo e del suo capo perché solo così può realizzarsi questa agognata governabilità, cioè l’onnipotenza della politica nei confronti dei cittadini e dei loro diritti, necessaria perché si realizzi la sua impotenza nei confronti dei grandi poteri economici e finanziari. Solo se avrà mani libere nei tagli alle spese sociali, il governo potrà trasformarsi in un fedele esecutore dei dettami di quei nuovi sovrani invisibili, anonimi e irresponsabili nei quali si sono trasformati i cosiddetti “mercati”.
Si capisce allora il nesso tra la lunga crisi della democrazia italiana nell’ultimo trentennio e l’aggressione alla Costituzione del 1948. All’aggravarsi di tutti gli aspetti della crisi – il discredito e lo sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla finanza, l’opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire il Parlamento e di rafforzare il governo tramite modifiche sempre più gravi delle leggi elettorali e della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima, negli anni Ottanta, il progetto craxiano della “grande riforma”, poi i tentativi delle Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D’Alema; poi l’aggressione ben più di fondo alla Costituzione da parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005, bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti; infine l’ultimo assalto da parte di questo governo.
Di nuovo, come sempre, ciò che accomuna tutti questi tentativi, oltre all’argomento della “governabilità”, è l’intento del ceto di governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine. Del resto queste riforme costituzionalizzano ciò che di fatto in gran parte è già avvenuto. Già oggi, tra decreti-legge, leggi delegate e leggi di iniziativa governativa, la schiacciante maggioranza delle leggi è di fonte governativa. Già oggi, grazie alle mani libere dei governi, si è prodotto un sostanziale processo decostituente in materia di lavoro e di diritti sociali, con l’abbattimento di quell’ultima garanzia della stabilità dei rapporti di lavoro che era l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, i tagli alla scuola e alla ricerca, il venir meno della gratuità della sanità pubblica e la monetizzazione di farmaci e visite che pesa soprattutto sui poveri, al punto che ben 11 milioni di persone nel 2015 hanno dovuto rinunciare alle cure.
Ebbene, l’attuale riforma equivale alla legittimazione popolare e al perfezionamento istituzionale di questo tipo di governabilità, nonché del processo decostituente che ne è seguito, interamente a spese dei soggetti più deboli. Si parla sempre del Pil come della sola misura della crescita e del benessere; mentre si tace sulla crescita delle disuguaglianze e della povertà e sul fatto che, per la prima volta nella storia della Repubblica, sono diminuite le aspettative di vita delle persone.
Dall’esito del referendum dipenderà dunque il futuro della nostra democrazia: la conservazione sul piano normativo e la rivendicazione popolare della restaurazione di fatto del suo carattere parlamentare, oppure la legittimazione e lo sviluppo dell’attuale deriva anti-parlamentare; la riaffermazione della sovranità popolare, oppure la consegna del sistema politico alla sovranità anonima, invisibile e irresponsabile dei mercati; la legittimazione del governo dell’economia e della finanza, oppure la riaffermazione e il rilancio del progetto costituzionale; lo sviluppo degli attuali processi decostituenti, oppure il rafforzamento, contro future aggressioni, della procedura di revisione costituzionale prevista dall’articolo 138, rivelatasi debolissima ed esposta a tutti gli strappi e a tutte le incursioni più avventurose nel nostro tessuto istituzionale.
Touhami Garnaoui, nato in Tunisia, ha seguito gli studi universitari a Parigi, vive in Italia dal 1969, prima a Roma dove lavorava poi in Sabina a Tarano da pensionato.
Laureatosi in scienze matematiche, aerodinamiche e economia. Diplomatosi all'ENSAR (Ecolle Nationale de Statistiques et administration économique. E' stato dirigente di aziende del gruppo IRI delle partecipazioni statali. Ha avuto l'incarico di capo missione del Ministero degli Esteri per la Cooperazione allo sviluppo. Ha scritto diverse articoli su stampa e riviste nazionali e libri di storia, saggistica e teatro.
Laureatosi in scienze matematiche, aerodinamiche e economia. Diplomatosi all'ENSAR (Ecolle Nationale de Statistiques et administration économique. E' stato dirigente di aziende del gruppo IRI delle partecipazioni statali. Ha avuto l'incarico di capo missione del Ministero degli Esteri per la Cooperazione allo sviluppo. Ha scritto diverse articoli su stampa e riviste nazionali e libri di storia, saggistica e teatro.
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